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Il riscatto della laurea e il rapimento dell’uguaglianza

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“Mantenimento dell’attuale regime previdenziale già previsto per coloro che abbiano maturato quarant’anni di contributi con esclusione dei periodi relativi al percorso di laurea e al servizio militare che rimangono comunque utili ai fini del calcolo della pensione”. Il bello (o il brutto, dipende da che parte ci si trova, se da quella dei privilegiati o da quella dei comuni mortali) del politichese è sempre stato questo: non far percepire immediatamente a chi legge qual è il vero obiettivo di una norma o di un intervento su un argomento caldo. Un po’ come faceva il clero utilizzando il latino per rimarcare la distanza col popolino e per zittire ogni polemica, puntando sull’ignoranza. La frase sopra riportata si trova scritta in fondo al comunicato stampa, diramato il 29 agosto scorso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, relativo alle proposte di modifica al decreto legge sulla manovra finanziaria. In mezzo a pomposi eufemismi, tutti però con un impatto non indifferente sulla vita (e, soprattutto, sul portafoglio) dei cittadini, ai quali a più riprese e in ogni salsa si ricorda che “c’è la crisi, bisogna fare sacrifici”, compare quella frase che rivoluziona (manco a dirlo, in negativo) il sistema previdenziale italiano. In parole povere, non saranno più conteggiati, ai fini del calcolo degli anni di contribuzione per andare in pensione, quelli riscattati per il periodo della laurea o della leva. Pur essendo una proposta e non ancora legge, in quelle poche righe è racchiusa tutta la differenza tra un comune mortale e un privilegiato (sottocategoria del raccomandato): la stessa differenza alla quale subdolamente si richiama ricorrendo con disinvoltura all’espressione latina (eccolo di nuovo!) “primus inter pares”, la stessa che sottende alle varie leggi “ad personam” e “ad aziendam”, la stessa disuguaglianza, infine, che fa candidamente dichiarare a un onorevole avvocato difensore di un onorevole capo del governo che “la legge è uguale per tutti, ma per taluni soggetti l’interpretazione può essere differente”! Tornando al tema del riscatto della laurea, dopo un attento esame del suo contenuto, personalmente ho cestinato la lettera che prefigurava l’imperdibile possibilità di riscattare il mio periodo universitario alla modica cifra, mi sembra, di trenta o quarantamila euro. Molti altri (dai 70mila ai 100mila, secondo Il Sole 24Ore, saranno gli italiani investiti dagli effetti della norma nei prossimi tre anni) hanno invece giustamente aderito e ora si ritrovano vittime di questa proposta che fa perdere e gli anni passati sui libri e i soldi investiti per il riscatto, in barba alle direttive precedenti. Di questi parecchi saranno molisani stando ai dati dell’INPS, dai quali si evince che le domande per il riscatto della laurea sono aumentate del 104% dal 2007 al 2008 e il maggior incremento percentuale si è avuto proprio in Molise, addirittura del 255%. Ma questa proposta ha un’implicazione ulteriore, e di maggior interesse per questa rubrica: con essa si scava ancor di più quel solco culturale ed economico tra la maggioranza della popolazione italiana e una minoranza di privilegiati. Senza addentrarsi nelle polemiche anti-Casta di questo periodo (tanto di moda ora ma che ci scorderemo domani, rapiti da altisonanti promesse, sempre le stesse, di stabilità e benessere) anche solo immaginare una norma del genere è uno schiaffo da parte di una categoria, quella dei politici, che si arrovella e si accapiglia all’infinito su questioni di lana caprina - come quota 97 oppure 100, somma degli anni di contribuzione più l’età, per poter andare in pensione -, ma non si domanda se sia arrivato il momento di dare una sforbiciata alle principesche rendite degli ex parlamentari o, magari, al sistema contributivo che prevede per gli onorevoli, una somma - “ad vitam”, continuando col latino - di circa 4mila e 200 euro al mese dopo soli 5 anni di mandato, al raggiungimento dell’età pensionabile (calcolata con quale quota?). Fate vobis.
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